Dalla fallimentare esperienza della didattica a distanza alla tendenza ad isolarsi
Sarantis Thanopulos è uno psicanalista, membro della Società Psicoanalitica Italiana e autore del saggio “La Città e le sue emozioni”. Lo abbiamo intervistato per un primo bilancio sulle ricadute, sociali e affettive, determinate dalla pandemia.
La crisi sanitaria ha dato una spinta alle ‘nuove’ tecnologie: da psicoanalista, quali rischi vede, per esempio, nella cosiddetta Didattica a Distanza e nell’uso dello ‘smart working’?
La didattica a distanza può essere usata come strumento di emergenza. Usarla come metodo regolare di insegnamento è particolarmente dannoso. Da una parte incoraggerebbe la disgregazione delle relazioni sociali degli studenti, con il mondo in cui vivono e tra di loro, già messe a dura prova dalla diffusione crescente delle modalità di comunicazione virtuale. Dall’altra renderebbe impersonale, anaffettiva la trasmissione del sapere, svuotandola della curiosità, della sorpresa, della scoperta soggettiva. Il cosiddetto “Smart Working” usato a sproposito, in sostituzione dell’insegnamento “dal vivo”, trasforma gli studenti in monadi non comunicanti, cloni di un sistema di conoscenze privo di discussione critica e di interrogazione, puramente tecnico, applicativo. Si promuove, con scarsa consapevolezza e mancanza di senso di responsabilità, un autoritarismo spersonalizzante, in cui l’autorevolezza del sapere si trasforma in un sistema di nozioni che si impongono come imperativi morali, e a cui insegnanti e allievi sono ugualmente sottoposti.
Insegnanti e Ministero dell’Istruzione sin dai primi giorni della pandemia hanno puntato tutto sulle tecnologie: non c’era alternativa?
Hanno puntato sulla (loro) pigrizia mentale. La cosa grave è che agiscono non sulla base di un disegno costruito appositamente, un progetto autoritario a cui ci si può ribellare, ma come ingranaggi di un’ideologia del sapere fondata sulla mistificazione, sulla confusione tra tecnica e scienza. La tecnologia è utile all’apparato logistico della nostra esistenza, non deve essere al servizio di un suo dominio sulla “carne” viva della nostra esperienza. La sostituzione della ricerca scientifica con la tecnologia, la frammentazione dei saperi, ridotti a conoscenze tecniche, sono fatti di cui drammaticamente ci siamo resi conto nella confusione dei pareri degli esperti nella lotta anti Covid. È stato necessario fare ricorso alla quarantena, un metodo utile, ma non proprio scientifico veramente. La tecnologia facilita il nostro fare, ma favorisce anche l’inerzia e l’isolamento. Grazie alla tecnologia le comunicazioni tra di noi sono rapidissime, ma al tempo stesso il nostro tempo libero è pesantemente diminuito. Si parla del buon uso della tecnologia, ma la cosa davvero dirimente è questa: siamo noi che gestiamo la tecnologia o è la tecnologia che ci assoggetta alla logica del suo sviluppo? La trasmissione del sapere è insieme relazione erotica, affettiva e sviluppo di un pensiero critico/poetico. Sul piano della conoscenza e della competenza insegnanti e allievi sono impari, ma sul piano del desiderio di sapere e di capire sono pari.
In un suo intervento lei ha parlato di “psicologia del coprifuoco”: in che modo, secondo lei inciderà sulla vita delle persone e nella società?
Lo stato di necessità non produce esperienza, desoggettiva la vita. È un dato di fatto. A ciò si può resistere, trovare modi per restare liberi dentro, coltivare un pensiero critico, trasformare le regole imposte in un senso di responsabilità personale. Mantenere la paura nel campo della sua funzione prudenziale, non farla diventare canone della nostra esistenza che ci porta a ritirarsi dal mondo, è fondamentale. È, tuttavia, indubbio che il confinamento in casa ha alimentato una disposizione psichica claustrofilica, guardinga. Gli effetti di questa disposizione persistono sotto forma di conformismo silente, emotivamente e mentalmente strutturato dentro di noi. Le tendenze trasgressive si inseriscono in questo stato d’animo, non lo contraddicono, lo confermano come regola interna alla quale si può disobbedire apparentemente (dando sfogo al sentimento di oppressione) senza metterla in discussione veramente. Da questo punto di vista portare le mascherine o non portarle non cambia nulla, anche se portarle è più prudente. La sola reazione allo stato di inerzia che si è diffuso nella nostra vita (la sua tossicità si farà ancora sentire) è impegnarsi a liberare i nostri desideri, sentieri e pensieri dai lacci con cui noi stessi ci siamo imprigionati molto prima della pandemia.
Cosa pensa della campagna “#io sto a casa” dei mesi scorsi promossa dai cosiddetti ‘Vip’?
I “Vip”, chiunque accetta di essere definito in questo modo, diventando parte della fiera delle vanità che la “Società dello Spettacolo” costantemente alimenta, sono una categoria inutile, dei parassiti. Sono il punto di convergenza di tutti i luoghi comuni del vivere, la loro campagna “Io sto a casa” è stata un’offesa al dolore umano. La campagna, a cui hanno partecipato tutti gli opinionisti “prêt a porter”, che tuttora imperversano da tutte le parti, ha cercato di far apparire uno stato di necessità, restrittivo della libertà, come un’occasione di riscatto per gli affetti. Mistificazione pura.
Simone Martini
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