Tagli e definanziamenti per 37 miliardi di euro al Sistema Sanitario Nazionale dal 2010
Al momento in cui scriviamo l’epidemia da Covid-19 ha per fortuna assunto toni meno drammatici e meno allarmistici rispetto ai primi giorni in cui il virus si era manifestato. «Dobbiamo ridimensionare questo grande allarme, che è giusto non sottovalutare, ma la malattia va posta nei giusti termini» ha dichiarato una settimana fa Walter Ricciardi, membro del Comitato esecutivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e consigliere del Ministro della Salute Roberto Speranza, fornendo allo stesso tempo cifre e percentuali che chiarivano la situazione: «Su cento persone malate, 80 guariscono spontaneamente, 15 hanno problemi gestibili in ambiente sanitario, il 5% è gravissimo e di questo il 3% muore» e che i primi casi sono stati «gestiti in maniera antologica». La corsa ai supermercati e alle mascherine, «che non servono a proteggere le persone sane», è somigliata quindi più ad una sorta di nevrosi, più o meno collettiva, alimentata dai telegiornali e dalle continue ‘ultima ora’ delle agenzie che ad una reale esigenza dettata dagli eventi. Semmai, per Ricciardi, il nodo è nell’attuale «modello di gestione» della Sanità pubblica e che «solo i protocolli unitari hanno permesso di sconfiggere un virus letale come la Sars e questi, insieme al seguire sempre l’evidenza scientifica consentirà di sconfiggere anche il coronavirus». Frammentazione regionale, strutture pubbliche carenti di attrezzature fondamentali come respiratori e biocontenitori, mancanza di posti letto e riduzione del personale medico e infermieristico all’origine quindi dell’iniziale confusione. Una storia che si può riassumere in quattro parole: smantellamento della Sanità pubblica. I metodi per assestare colpi al Servizio Sanitario Nazionale sono stati tanti e partono da lontano, almeno dal biennio 1991-1992, con la Legge Delega che ha dapprima trasformato le Unità Sanitarie Locali in Aziende, mettendole in concorrenza tra loro, con logiche del tutto privatistiche interessate più al fatturato e al contenimento dei costi che alla salute delle persone. E poi con la ciliegina dell’intramoenia: se hai i soldi ti curi prima degli altri e hai la facoltà di scegliere il medico. Dal decreto Balduzzi del 2013 si apre la stagione dei tagli e dei definanziamenti con le varie Leggi di Stabilità che sanciscono le progressive riduzioni di spesa: 540 milioni di euro in meno per il 2015 e 610 milioni per il 2016. Ed è così che si allungano i tempi di attesa nel settore pubblico favorendo la corsa alle cliniche e agli studi privati. La conferma proviene dal Rapporto del Consorzio per la Ricerca Economica Applicata in Sanità del 2019 che mostra quanto la tendenza all’aumento delle spese mediche e i tempi di attesa non solo non si riduce rispetto agli anni precedenti ma tende ad aggravarsi. E i dati sono impressionanti. Per una colonscopia ad esempio si passa dai 112 giorni di attesa per una struttura pubblica ai 78 giorni nel privato convenzionato fino ai 10 giorni appena in regime di intramoenia. Per una gastroscopia i tempi di attesa sono rispettivamente di 100 giorni nel pubblico, di 43 nel privato e di 12 in intramoenia. L’esborso da parte del cittadino non è da meno: 257 euro per una colonscopia, 274 per una coronarografia, 108 per una ecocardiografia. Un salasso per quel che riguarda la spesa privata di quasi 35 miliardi di euro, con almeno il 92%, come dice il Rapporto, out of pocket. Di tasca propria.
Simone Martini
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