Il 2017 è stato dichiarato l’anno mondiale del turismo. In questo tuo ultimo libro (“Il mondo comincia a San Rocco e finisce alla Stella, svortenno pe’ Cellomaio e i Sampàveli”, ed. Controluce) si avverte una nota critica su un certo tipo di viaggi… “Se viaggiare aveva un senso, un significato di sfida alla natura e alla sua forza, era quando l’uomo doveva affrontare le distanze con le proprie gambe, come Marco Polo, ad esempio, non oggi che sei un imballaggio su un mezzo che ti porta come cosa inanimata da un posto all’altro, mentre l’inquinamento cresce tra l’indifferenza generale…”. “Amo viaggiare, ma sono per un turismo ecosostenibile. Ho visto intere scolaresche cercare in alcune capitali europee la tale maglietta o trascorrere la serata nelle discoteche di Praga o Berlino tali e quali a quelle che frequentavano alla periferia di Roma… e non entravano nei musei. Si pensi alle nostre città prese d’assedio tutto l’anno. Questo turismo di massa sta diventando ingestibile, vengono stravolte le caratteristiche dei nostri centri storici dalla maleducazione e i danni sono ingenti. Ho letto che la Grecia arriverà quest’anno a 30 milioni di turisti. E tutto sta nelle mani dei cinesi che, decuplicati a vista d’occhio nell’ultimo biennio, saranno potenziali turisti nei prossimi anni”. In quest’ultimo libro su Albano, ci dici: “Bisogna aver vissuto dentro le bettole per poter rimpiangere dolorosamente la loro fine”. Spiega meglio la funzione dell’osteria in quegli anni. “Chi parla delle osterie come luoghi di risse e di alcolizzati, è vissuto altrove o non ha capito nulla. Il vino non era per i castellani un prodotto di sbornia e perdizione, ma una divinità pagana, liberatrice, legata alla sacralità del lavoro. L’analisi che ho fatto della nostra antropologia culturale, ci dimostra che noi siamo stati per duemila anni, fino all’era industriale, dei pagani fusi al cristianesimo. Il filosofo e teologo Sergio Quinzio, leggendo “La sagra degli ominidi”, azzardò questo concetto: – «Si tocca davvero qualcosa dell’immemorabile paganesimo, si sente come il vino può assurgere a divinità liberatrice».” Che differenza c’è fra ieri e oggi nell’agricoltura? “Una differenza fondamentale. Ieri il contatto dell’uomo con la Natura era comunque “religioso” nel senso panteistico del termine; oggi è un fatto commerciale. Pure il terreno è diventato una sorta di fabbrica, motorizzato e spersonalizzato. Prima, oltre il 70 per cento delle persone lavorava i campi; oggi è come in America: il 2 per cento. La devozione per madre Natura è divenuta strumento di consumismo”. Tutto ciò è progresso o regresso? “Le due cose vanno sempre insieme: da una parte si migliora, da un’altra si peggiora. Ad es., le automobili hanno facilitato gli spostamenti, alleggerito le fatiche, ma hanno reso impossibile le passeggiate, invadendo strade, piazze, vicoli che prima erano degli uomini, e ammorbando l’aria coi gas di scarico e col rumore. Tutto ciò non riguarda solo i Castelli Romani, ma l’Italia, l’Occidente, pure la Cina e l’India. Noi siamo ancora fortunati: abbiamo i viottoli che vanno a Palazzola, villa Doria, il bosco dei Cappuccini”. “Non credo che avrei potuto chiedere di più alla vita che di nascere in questo cono lavico, dove la Natura ha posto il sigillo della varietà estetica e della grandezza storica”: leggendo questa frase nel tuo testo si capisce pure perché hai preferito rimanere ad Albano e sobbarcarti il pendolarismo con Roma per i tuoi impegni di lavoro nella Capitale. “Io sono come una pianta selvatica: non può essere trapiantata fuori del terreno in cui è nata e cresciuta. Mi sento tutt’uno con questi luoghi. Pensa: mia nonna paterna Rosa Salustri, quando i miei volevano aprire in Roma una bottega di “Vini e olio”, disse: «Io rimango qua: non posso lasciare soli i morti che dormono a camposanto». In questa mia scelta non so se ho limitato le opportunità culturali dei miei figli o forse ho dato loro la possibilità di non allontanarsi dai loro amici, dalla radice vitale che ci tiene uniti coralmente al passato e proiettati al futuro”.
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